"DON BANDONEÓN"
INTERVISTA A JUAN JOSÉ MOSALINI
Per il secondo articolo della rubrica dedicata ai dischi che hanno in qualche modo segnato la storia del bandoneón abbiamo pensato, insieme a Fabio Furia, di parlare di Juan José Mosalini e del disco “Don Bandoneón” che fu un grande successo di pubblico e di critica in Europa e in particolare in Francia, dove il maestro vive da diversi anni. In questo articolo parleremo direttamente col maestro, che molto gentilmente si è reso disponibile per un’intervista. Ecco quindi l’intervista completa al maestro Juan José Mosalini.
Buongiorno maestro, questo disco ha una certa importanza storica, non è così?
Effettivamente si, ha un certo valore storico. Ripensando a quando quando stavo in Argentina, durante gli anni sessanta e settanta e fino alla mia partenza per la Francia nel 1977, si parlava sempre tra noi colleghi e amici bandoneonisti (come Julio Humada, Leopoldo Federico, Máximo Mori ed altri), del perché nessuno registrava un disco intero di bandoneón solo.
Leopoldo mi diceva: “Non interessa a nessuno. Ci ho già provato, altri ci hanno già provato, alle case discografiche non interessa”. In effetti tutte le registrazioni di quel tipo fino a quel momento erano “fatte in casa”. Arrivai in Francia col desiderio di registrare un disco di bandoneón solo, e fui fortunato perché la casa discografica per la quale stavo registrando (con la formazione “Tiempo Argentino”, e poi con Beytelmann e Tomas Gubitsch) mi propose di fare qualcosa per conto mio. E ovviamente pensavano a un ensemble. Io dissi: “Ho un progetto che voglio realizzare da tempo, è un disco di bandoneón solo”. Inizialmente resistettero un po’, però alla fine si mostrarono molto interessati e mi dissero “Ok, facciamolo”. E così nacque “Don Bandoneón”.
Per questo disco volli registrare i brani con gli arrangiamenti di Federico ed anche opere originali, come per esempio il tema breve con Julio Cortázar (Buenas Noches Che Bandoneón) o i pezzi con vari bandoneón, che registrai tutti io personalmente. Il disco uscì nel 1979. Ebbe un’enorme ripercussione nel mondo musicale perché fu il primo nel suo genere, nel presentare il bandoneón a quel modo e con quel repertorio. Rappresentò una novità per il pubblico e per i musicisti: un bandoneón diverso, mai ascoltato fino ad allora.
È una raccolta di arrangiamenti che segnarono un’epoca e segnarono anche me, naturalmente. Venne recepito molto bene dalla critica. Con questo lavoro cercai di mostrare cosa significava il bandoneón nel tango e a partire dagli arrangiatori di quell’epoca. Successivamente, nel secondo disco mi venne l’idea di invitare i miei colleghi della mia generazione, affinché componessero opere originali che io avrei interpretato: Mederos, Daniel Binelli, Leopoldo Federico, Julio Pane, Astor Piazzolla. Tutti questi brani stanno nel secondo disco (Che Bandoneón, ndt.), oltre ai lavori con Antonio Agri. Fu un modo per diffondere il lavoro dei miei colleghi, che qui in Francia e in Europa non erano ancora conosciuti. Per esempio, Binelli compose un vals molto bello, “Paris desde aquí”; Leopoldo scrisse “Un Fueye en Paris” dedicandolo a me.
Il disco “Don Bandoneón” venne pensato e registrato in Francia?
Esattamente. nello studio “Normandia”, e il secondo disco lo registrai ad Amiens, dove c’era un’etichetta discografica che si chiamava Label Bleu: con loro registrai i lavori del Trio, poi registrai con l’orchestra e molte altre cose. Label Bleu è un’etichetta discografica di jazz francese, però ha prodotto lavori di gruppi abbastanza eterogenei, come il mio appunto.
Il successo ottenuto dal disco si deve al fatto che uscì in Europa?
Si. Io penso che in effetti se lo avessi fatto in Argentina sarebbe passato inosservato o quasi. Credo che il merito fu anche della stampa e della casa discografica, che fecero un buon lavoro di diffusione. Io partecipai anche a varie trasmissioni televisive molto seguite allora, e grazie a questa visibilità il bandoneón solo fu messo molto in evidenza. Come già detto, questo lavoro ottenne molto riconoscimento: era una cosa nuova e originale nel panorama francese, ma anche in Germania, Italia, Olanda eccetera. Laddove il disco arrivò, venne recepito come una novità.
Alcuni brani suonano quasi sperimentali, come per esempio “Milonga de la Tierra”.
Si, in effetti si. Quando composi “Milonga de la tierra” pensai ad una milonga con due parti, una melodia lenta in contrasto con un’altra parte con più dinamismo. In questo brano ci sono diversi bandoneón, e al suono della tastiera sinistra aggiunsi un effetto ottavizzatore per portare il suono in un registro più basso. In questo modo potevo aumentare la distanza sonora tra i gravi e gli acuti nel bandoneón.
Usai anche degli effetti di percussione del bandoneón ottenuti colpendo con le dita la cassa sinistra dello strumento (il cassotto, ndt.) a imitazione del bongo, e anche il rumore delle dita che scorrono sulla tastiera. Tutto questo forma parte del materiale sonoro proprio del bandoneón, e volli utilizzarlo come elemento bandoneonistico. Alcuni già lo avevano fatto: Piazzolla, Pugliese. Mi piaceva, mi sembrava un effetto interessante; del resto è comune anche in molti altri strumenti imitare le percussioni, prendi per esempio il violino.
C’è qualche altro aneddoto interessante su di un brano in particolare?
L’aneddoto più importante, per ciò che significò per me, riguarda Julio Cortázar: mi disse che avrebbe accettato di partecipare al disco con il suo poema nel brano “Buenas Noches, Che Bandoneón”. Lo chiamai e gli dissi “Ascolta, farò un disco di bandoneón solista, mi piacerebbe che partecipassi” e lui mi rispose “Va bene, vieni a casa e porta il bandoneón”.
Arrivai a casa sua, erano le 11 del mattino, mi accomodai in salotto. Lui mi disse: “Ti preparo un aperitivo argentino, Cinzano con Fernet, o qualcos’altro” e andò in cucina, e io nel frattempo presi il bandoneón e iniziai a suonare “Flores Negras”. D’un tratto sentii un grido proveniente dalla cucina: “’Non ci posso credere!”
Io gli chiesi “Che succede??” “Sai una cosa, Juan Josè?” - mi rispose - “questo è il mio tango preferito. Tu senza saperlo hai preso il bandoneón e hai suonato proprio “Flores Negras”. Come faccio adesso a dirti di no?” .
Allora iniziammo a pensare al brano, io gli dissi che mi sarebbe piaciuto fare una specie di dialogo tra il bandoneón e la sua voce con un testo improvvisato, come se parlasse al bandoneón mentre io lo accompagnavo con lo strumento. Tipo una payada. Sai che cos’è la payada?
No, non la conosco…
La payada era molto conosciuta nelle zone di campagna tra i chitarristi, che suonavano un tempo di milonga fraseggiando con la chitarra per 8-16 battute, uno di fronte all’altro, improvvisando testi con rima. Uno dei due suonava la chitarra, inventava un testo improvvisato e poi l’altro doveva rispondergli nello stesso modo. I migliori autori di payadas furono gli uruguaiani. Per la payada è necessario avere cultura, e l’estro di improvvisare rispondendo inmediatamente all’altro.
Insomma, dissi a Julio: mi piacerebbe fare una payada. Ed egli mi rispose “No, io no, vai a cercarti un uruguaiano” mi disse, “perché io non so improvvisare”.
“Non importa” – gli risposi, “scrivilo, però mi piacerebbe che suonasse come una cosa spontanea”. E così fu. Questo è l’aneddoto. E in seguito con Cortázar per me fu una relazione incondizionata: lo ammiravo come scrittore, come essere umano; diventammo amici, era una persona di grandissimo peso nella letteratura argentina e latinoamericana, era politicamente impegnato, stavamo dalla stessa parte nella difesa dei valori della democrazia, in un mondo come quello latinoamericano dove c’era una dittatura dopo l’altra. Non ha mai smesso di lottare per il ritorno della democrazia nei paesi come il nostro.
Questo disco ha un piede nella tradizione e un piede nell’innovazione. Come fu ricevuto dai musicisti in Argentina e in Europa? Come si espresse a riguardo Piazzolla?
Inviai il disco ad Astor. Mi disse: “Quello che mi piace di più sono le opere originali che hai fatto tu. Gli altri sono tanghi convenzionali”. Io gli risposi che li registrai perché volevo far conoscere gli arrangiamenti di Leopoldo, ed egli mi disse “d’accordo, però sono cose già fatte”. “Però nessuno le conosce” – gli risposi. “Io sono interprete, così come ho suonato opere tue, ho voluto eseguire anche quelle di Leopoldo.”
Il tema di Astor che registrai, “Con el cielo en las manos” a lui non piaceva. “Perché hai suonato quel tango di merda?” mi disse. Si espresse esattamente così come ti sto dicendo.
Per quanto riguarda l’opinione degli altri musicisti, non si parlava molto tra colleghi di queste cose in Argentina, e meno ancora tra i colleghi della stessa generazione. “Fenomenale!” - e basta, era il commento tipico.
Si parlò molto di più del disco nel contesto europeo, tra musicisti francesi o argentini espatriati, oppure olandesi, italiani. È un disco che suscitò interesse per il bandoneón. Molte persone iniziarono a suonare il bandoneón proprio perché scoprirono lo strumento grazie a questo disco e alla mia maniera di suonarlo, anche se in realtà non feci nulla di particolare: cercai di mostrare quanto avevo imparato in Argentina, dopo essere stato influenzato da moltissimi musicisti. Poi naturalmente c’è la mia maniera personale di suonare. Peró non scoprii l’acqua calda, ero semplicemente uno tra i tanti.
Questo è l’effetto che il disco sortì, poi scrissero articoli, lo analizzarono, ne parlarono in vari servizi: in particolare i musicisti francesi, come Galliano ed altri, che riconobbero nel disco una maniera di suonare questo strumento mai ascoltata fino ad allora. Perché è vero che la musica di Piazzolla era già conosciuta, però non è la stessa cosa che ascoltare “Mala Junta” arrangiato da Leopoldo e suonato da me: è tutta un’altra cosa naturalmente.
Certo, quindi nel disco ci sono aspetti tecnici interessanti anche per i musicisti.
Forse si, e io non me ne rendo conto: il tempo passa e io lo vedo sempre più come una cosa fatta parecchi anni fa; probabilmente oggi lo suonerei in un altro modo, poco ma sicuro.
Quanti anni aveva quando lo registrò? Quali erano le sue esperienze prima di questo disco?
Avevo 35 anni. Arrivai qui in Francia nell’aprile 77, in novembre di quell’anno festeggiai i miei 34. Venivo dall’esperienza come membro di varie orchestre, dall’aver suonato in un quartetto di musica ben strutturata e di avanguardia, come il quartetto di Osvaldo Manzi, poi Generación Cero con Mederos; avevo suonato un po’ nel “rock nacionál” argentino, nel gruppo “Alas”; tutto questo oltre all’esperienza nelle orchestre di Salgán, di Federico, di Pugliese, Jorge Dragone de altri ancora.
Evidentemente avevo accumulato un’esperienza molto ricca perché si suonava molto in quel periodo, nonostante il tango fosse già in declino; le “orquestas tipicas” avevano già iniziato a sparire ma venivano sostituite da quartetti, quintetti, trio, duo, che suonavano nei cafe per un pubblico ridotto.
Quali musicisti la ispiravano?
Tra i bandoneónisti naturalmente Federico, Piazzolla, Troilo; un musicista della prima epoca del tango, bandoneónista e gran compositore, Pedro Laurenz. Piazzolla compose il tema “Pedro y Pedro” dedicato a Laurenz e a Pedro Maffia.
Poi mi ispiravo molto a Julio Ahumada, e ad un’altro collega della mia generazione, un poco più grande di me, Dino Saluzzi... bene, con tutti loro io rizzavo le orecchie per ascoltarli e per ispirarmi con ciò che mi piaceva della loro musica.
Come non citare poi i miei colleghi, ciascuno col suo proprio stile: Néstor Marconi, Victor Lavallén, Mederos. Ci ascoltavamo tra di noi e ciascuno aveva i suoi preferiti. Poi ci sono i musicisti che non sono strettamente bandoneónisti, penso ad esempio ad arrangiatori importanti come Roberto Panzera; Pugliese mi influenzò molto (suonai 7 anni nella sua orchestra), e poi Horacio Salgán, Héctor Maria Artola, un arrangiatore con una formazione classica molto solida.
Poi anche Julian Plaza come compositore, con quel “profumo tanguero” dell’epoca, con quel carattere così popolare. Poi c’erano le canzoni, il tango cantato da Rivero, Goyeneche, Marino. E tutti gli altri grandi musicisti e cantanti che facevano del tango la loro forma di espressione. Un cantante ti insegna come cantare una melodia con il bandoneón. È di importanza fondamentale, e lo puoi imparare non solo da un bandoneónista, ma ascoltando tutti i grandi cantanti a cominciare da Gardel fino a quelli di oggi.
Parlando un po’ del bandoneón, come vede il futuro dello strumento?
Il bandoneón ha il futuro garantito. Per varie ragioni. Questa “apertura” verso lo strumento, che si manifestò dopo che vari musicisti (come me ed altri) emigrammo dall’Argentina e dall’Uruguay per trasferirci in Europa, fece vivere in vari aspetti una rilettura del tango e un rinato interesse per questo genere musicale.
Si diffuse un grande interesse in molte parti del mondo, in Francia, in Italia, in Germania, Olanda, Finlandia, Cina, Giappone. Senza contare tutti i giovani bandoneónisti argentini che ci sono adesso, che sono eccellenti, e anche tutti i nuovi compositori.
Tutto questo fu possibile eliminando le “frontiere”. Molti pensano che se non hai il passaporto argentino non puoi suonare tango, ed è una fesseria: è totalmente assurdo. Sono d’accordo sull’importanza dell’ambiente musicale di Buenos Aires e tutto il resto, però questo non impedisce a chi si mette a studiare seriamente tango e che vive, ad esempio, a Parigi, di sviluppare le competenze per essere un buon interprete, o arrangiatore o compositore, in maniera assolutamente coerente con il tango. Ci sono un sacco di esempi in questo senso.
Di fatto, non c’è nessuna differenza coi grandi musicisti argentini che arrivarono dall’Italia… Antonio Agri era siciliano… la storia è piena di personaggi che sbarcarono nel Rio de la Plata con il violino, con la fisarmonica, cantando eccetera, e si integrarono nel tango, perché il tango aveva bisogno di musicisti di valore, naturalmente. Per questo ci furono molti violinisti di origine ebraica che si integrarono nel tango, come ad esempio Simón Bajour che suonava con Piazzolla.
Insomma, durante gli anni questi musicisti iniziarono a costruire un linguaggio che si arricchì fino a dare al tango il suo carattere odierno. Ecco perché chi dice che furono gli argentini ad inventare il tango si sbaglia, perché nel Rio de la Plata inizialmente erano tutti immigranti; in seguito si, con la seconda, terza generazione il tango si identificò geograficamente e culturalmente con il Rio de la Plata e coi suoi abitanti, però successe perché Buenos Aires era un conglomerato di correnti migratorie molto variegate. Quindi, per concludere: oggigiorno ci sono molti più bandoneónisti rispetto a quando io iniziai come professionista. E quando dico “molti” vuol dire che devi moltiplicare per 100. In quel momento eravamo davvero pochi. Io ero visto come un extraterrestre per il fatto che suonavo il bandoneón. Adesso i musicisti sono tantissimi, e molti con un talento impressionante. In Argentina così come in Europa, USA, Cina, Giappone eccetera.
Quindi il futuro dello strumento è garantito…
Assolutamente: guarda anche tutti i costruttori che ci sono adesso. Quando io iniziai a suonare gli unici strumenti disponibili erano quelli realizzati prima della guerra. Poi a partire dagli anni ‘70 diversi artigiani iniziarono a costruire strumenti nuovi, e al giorno d’oggi ci sono almeno 10 costruttori sparsi in giro per il mondo.
Grazie maestro, è stato davvero un piacere e un onore intervistarla e spero di poterla presto intervistare di nuovo per parlare di un altro dei suoi lavori!
Per approfondire:
Scarica la versione in spagnolo
Chi sono
Mi chiamo Omar Caccia, mi piace scrivere e studio il bandoneón. Dal 2018 vivo a Buenos Aires dove mi sono trasferito per approfondire questo strumento al Conservatorio “Manuel De Falla”. Scrivo in un blog le mie riflessioni sulla musica e su questo incredibile strumento.
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